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Infanzia e percorsi psicologici: è possibile?

  • Immagine del redattore: Diletta Marino
    Diletta Marino
  • 28 feb 2021
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 1 mar 2021

Verso metà del secolo scorso si faceva sempre più forte l’interesse verso il mondo del bambino, alla ricerca di una via per non concepirlo più come un <<piccolo adulto>>.


Ci si ritrovò a dover pensare a qualcosa che funzionasse come la tecnica delle libere associazioni, ma con i bambini. Il problema di una tecnica espressiva alternativa alle libere associazioni, che avesse comunque una valenza psicologica, fu il centro del lavoro di molti autori, in particolar modo di Melanie Klein. Cominciava così a formarsi una nuova via d'indagine con al centro i processi di simbolizzazione messi in atto dal bambino durante gli incontri. Il gioco così divenne il mezzo per entrare nel mondo del bambino, esplorarne l’immaginazione, comprendendone il registro simbolico. Riferendoci al modello kleiniano il bambino entra in una stanza (quella dello psicologo) “pronta” a ricevere il suo linguaggio. Lo si fa fornendo del materiale che gli permetta di ripensare ad una esperienza (giochi, libri o materiale per il disegno), a far sì che possa ri-appropriarsi di quel contenuto (contenerlo) per poterlo manipolare (trasformare).


Ed ecco che il gioco è fatto: il pensiero diventa linguaggio.


Il gioco o la narrazione diventano quindi importanti non per ciò che sono, ma per quello a cui fanno accedere, per ciò che il simbolo non è. Cominciando a ragionare in questi termini, interpretazione e tecnica sono una musica unica, di cui si riconoscono più suoni nei differenti strumenti, ma che non sarebbe tale se fossero sentiti da soli. La fantasia giocata prende voce e adesso viene narrata, perché il bambino non è più solo e può fare un’esperienza dell’altro con-lui nuova, ma allo stesso tempo storica (nel senso che appartiene alla storia personale del bambino). Ma non basta mettersi al posto del bambino, proiettarsi, è necessario stare accanto a lui sia nella realtà fisica che psichica del momento.


Allo stesso modo ciò accade nella fiaba, come se fosse l'opportunità per esplorare una storia facendola un pò propria. Vallino scrive: “Il fare una storia significa cominciare a tessere una trama di parole in cui un malessere informe, acuito da un bombardamento di sensazioni disordinate ed automatiche, viene raccolto e condiviso con il terapeuta. (…) Il Luogo Immaginario del bambino è una cosa seria, non lo si può deridere e non lo si può interpretare. I bambini considerano le proprie fantasie come delle intuizioni. (…) Nei racconti il Luogo Immaginario è un paese pieno di insidie per gli incauti e trappole per i temerari. È un paese in cui fate e streghe, giganti, mostri e fantasmi conducono la loro esistenza. È un luogo che contiene molte altre cose: mari, sole, luna, il cielo e la terra, e perfino i bambini che sono vittime di un incantesimo” (Raccontami una storia, Vallino, 1998).


Nella realtà l’armadio dei giochi che un piccolo paziente trova in studio diventa uno scrigno, in-potenza rispetto al bambino, in cui personaggi, eventi, racconti di una fiaba, conflitti interiori, possono essere rappresentati, ma, l’armadio è soprattutto un Luogo Immaginario in cui possiamo cercare e trovare una soluzione, una via alternativa, una lettura diversa, e giungere insieme ad un’esperienza trasformativa.

 
 
 

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